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Giada, guerriera del cuore in tempi di pandemia

La storia di Giada, cardiopatica congenita adulta ACHD: durante la pandemia da Covid si è sentita male ed ha vissuto un lungo percorso di malattia durante il quale è stato fondamentale il supporto psicologico

Paziente cardiopatico congenito adulto ACHD

ACHD: adult with congenital heart disease

Giada è una paziente adulta ACHD, acronimo che sta per Adult with Congenital Heart Disease. Ha 24 anni, è modenese ed ha un forte temperamento forse dovuto, come sottolinea lei, a quello che le è accaduto.
Giada è nata con una cardiopatia nota come Truncus Arteriosus comune di tipo II: a 12 giorni di vita ha subito il primo intervento cardiochirurgico, in cui le è stata artificialmente ricreata l’arteria polmonare. Dai 9 anni e fino ai 21 Giada ha subito diversi interventi e cateterismi.
Il 2021, però, è stato più impegnativo del solito per la sua salute.
Nell’aprile 2021 Giada è stata ricoverata con una sintomatologia che in prima battuta ha fatto pensare al Covid-19, ma che successivamente si è rivelata essere collegata alla sua cardiopatia. Giada è un esempio vivente della qualità della sanità emiliano-romagnola, come lei stessa ci tiene a precisare.
“Ho iniziato a stare male il 6 aprile del 2021: il giorno dopo Pasquetta mi è venuta la febbre, non ero ancora vaccinata. Ricordo che ero a casa a studiare, ho avvisato il mio fidanzato che vive insieme a me a Lama Mocogno. Il giorno successivo la febbre è salita a 39. Dato che non mi sentivo per niente bene, non me la sentivo di uscire di casa e quindi non ho fatto subito il tampone per escludere il Covid. Ho iniziato a prendere la tachipirina ma la febbre non si abbassava, ricordo che mi veniva da vomitare” ricorda Giada.
Il giorno dopo mi sono svegliata quasi paralizzata, non riuscivo a muovermi dal busto in giù, muovevo solo un poco le braccia e avevo dei dolori lancinanti. Il mio fidanzato mi ha preso su di forza e mi ha accompagnata a fare il tampone. Siamo tornati a casa: avevo tantissimo male addosso, abbiamo chiamato l’ambulanza che mi ha portato in un ospedale della provincia di Modena dove, anche se non c’era ancora l’esito del tampone, mi hanno messa in isolamento, lontana dai casi Covid”.

Gli esami del sangue rivelano un indice di infezione altissimo nel sangue di Giada; nel frattempo arriva l’esito del tampone, negativo. Dalla provincia, Giada viene trasportata in un altro ospedale sempre nei pressi di Modena, in ambulanza, dove i medici ipotizzano la meningite smentita però successivamente dagli esami e dagli accertamenti. Giada continua a peggiorare: il fegato si ingrossa, i reni funzionano male, anche la respirazione peggiora.
“Mi hanno messo l’ossigeno e lì ho iniziato ad avere paura. In quel momento ho chiamato la psicologa della mia associazione Piccoli Grandi Cuori, Sara Ruggeri, con cui sono sempre in contatto. Le ho detto “Sara, ho paura, non so cosa fare”. Lei mi ha risposto che avrebbe informato immediatamente i medici e il dott. Andrea Donti ha immediatamente organizzato il trasferimento al Reparto di Cardiologia e Cardiochirurgia Pediatrica e dell’Età Evolutiva del Policlinico di Sant’Orsola a Bologna. Non mi aspettavo tutta questa premura”. 

L’intervento a cuore aperto

La sera stessa Giada arriva al Policlinico, dove viene trasferita in terapia sub-intensiva e sottoposta a nuove analisi.
“Mi si è avvicinato il dott. Andrea Quarti, che mi ha spiegato la necessità di procedere con un intervento a cuore aperto. Per me è stato uno shock fortissimo. Insomma voglio dire, quando sei piccola è solo un trauma di chi te lo racconta, ma in età adulta è tutta un’altra cosa. Il panico iniziale è passato dopo aver parlato con Sara, la psicologa. Le ho detto “Va bene, facciamo l’intervento”. Da quel momento non vedevo l’ora che arrivasse il giorno dopo, il giorno dell’intervento. Ricordo benissimo questo aneddoto: dato che ero a dieta da mesi, e da otto mesi non mangiavo una pizza, mentre mi portavano in sala operatoria ricordo di aver pensato “Se ci rimango secca non mi sono nemmeno tolta lo sfizio di un’ultima pizza!”. 
Giada è entrata in sala operatoria il 14 aprile, facendo il tifo per i suoi dottori: “Dai che se ce la facciamo, Piña  Colada per tutti”.
Giada si risveglia dopo otto ore di intervento in terapia intensiva. “Ricordo la fisioterapista che mi insegnava a tossire, a sbadigliare, a tenermi il petto, per la cicatrice. Ma ricordo anche la paura, la sete, il dolore fisico. Ho pensato che avrei potuto non svegliarmi più”. 

Dimissioni e nuove consapevolezze

Giada viene dimessa dal Sant’Orsola il 14 maggio. Ricomincia la sua vita da persona adulta con cardiopatia congenita, ma questa volta Giada è cambiata.
“Fino a prima di questo episodio, ho sempre vissuto la mia vita normalmente. Ho sempre fatto sport e viaggiato tantissimo, sono stata in Australia un anno, in Asia, in Thailandia, in Vietnam. Oggi, dopo quello che è successo, avrei paura a farlo. Prima non ero consapevole dei limiti del mio cuore, di come un batterio, lo Stafilococco Aureo, potesse compromettere la mia salute. Sapevo che poteva esserci l’imprevisto dietro l’angolo, ma non ne ero cosciente. Oggi, ne ho consapevolezza. Il cuore è il tuo grande capo buono, che ti avvisa quando ti devi fermare. Ed è importante ascoltarlo, farlo vivere, perché è un muscolo e come tale va allenato. Durante la dimissione mi sono messa a piangere, ho stretto legami importanti con alcuni dottori e infermieri”.
Da un momento all’altro tutto può cambiare. Giada è nata guerriera, e quello spirito da combattente ancora oggi lo mantiene, con grandi ambizioni per il suo futuro: “Vorrei fare carriera accademica, soprattutto vorrei fare qualcosa per aiutare le minoranze, qualcosa che dia valore alla mia vita”. 

“Mia mamma è stata brava a spiegarmi subito, quando ero piccola, il perché della mia cicatrice. Io la cicatrice, in realtà, l’ho sempre vissuta come un vanto: quando al mare o in piscina i bambini mi chiedevano “che cos’hai lì?”, rispondevo spiegando che cosa mi era successo, come mi ha sempre suggerito lei.
Diciamo che “me l’ha venduta bene”. Si è sempre fatta seguire dalle psicologhe dell’associazione Piccoli Grandi Cuori e credo che questo sia stato utile per la comunicazione e la relazione nei miei confronti. Sono cresciuta pensando di aver sconfitto qualcosa di grosso, come una guerriera, di aver vinto una battaglia. Come se avessi scavalcato una grossa montagna”.

nella foto: Giada con la mamma Caterina, che fa parte del direttivo dell’associazione

“In tutto questo percorso è stato fondamentale il supporto psicologico che ho ricevuto: credo dovrebbe essere presente in ogni reparto, perché ci si sente meglio nel sapere di avere qualcuno al tuo fianco, di specializzato, a cui confidare le tue paure, è una sorta di cuscinetto. Il trauma è straziante, come è straziante trovarsi da soli di fronte alla propria malattia. Ricordo ancora quando feci l’ultimo cateterismo, sempre al Sant’Orsola: ciò che mi faceva stare a galla nelle mie paure, erano i sorrisi di infermieri e psicologi”. 

Luci accese sui diritti

“Vorrei sottolineare quanto sia importante anche il supporto sociale e socioassistenziale del cardiopatico congenito: la tutale dei suoi diritti. Purtroppo, c’è poca conoscenza su questo, c’è bisogno di informare e di sensibilizzare  istituzioni, scuole, società sportive, rispetto ai bisogni e ai diritti del cardiopatico congenito. Ma soprattutto, è importante sapere che ogni cardiopatico congenito è diverso e rispetto alla sua situazione è importante capire come intervenire, proprio come si impara a conoscere un diabetico, piuttosto che un allergico o un asmatico. Scuole e società sportive dovrebbero conoscere le pratiche di soccorso nel caso in cui un cardiopatico congenito non si senta bene, ci vuole la sensibilità per conoscere il ragazzo e capire come intervenire.

La nostra più grande conquista da cardiopatici sarà quella di essere compresi ed essere trattati ciascuno in modo diverso: ogni cardiopatia ha una sua complessità, che deve necessariamente essere compresa. Quando si parla di cardiopatico congenito ogni volta si parla di una persona diversa dall’altra, sia per come affronta la malattia, sia dal punto di vista medico. Nessun cardiopatico congenito è uguale all’altro. Lo dico perchè quando si parla di una patologia si tende a generalizzare. Si fa di tutta l’erba un fascio, e questa credo sia la più grande difficoltà da affrontare”.