Emanuela Angeli, chirurga dei “piccoli grandi” cuori
L’eleganza del gesto chirurgico, la passione per il cuore, la forte determinazione e l’importanza del metodo: la cardiochirurga Emanuela Angeli racconta la sua storia di donna, di mamma e di medico
ph. Paolo Righi
Il sogno di diventare medico
Ha sempre voluto fare il medico, fin da bambina, sognava di diventare pediatra. Oggi la dott.ssa Emanuela Angeli, pesarese di nascita e bolognese di adozione, è cardiochirurga pediatrica presso l’IRCCS Policlinico di Sant’Orsola a Bologna.
E’ uno dei nostri “dottori del cuore”.
La sua è una storia fatta di passione, determinazione, studio e metodo. E di una “strana” forma di eleganza, quella del gesto chirurgico: un colpo di fulmine che l’ha conquistata in sala operatoria e portata dove è oggi. Allieva dei luminari di cardiochirurgia Pierangeli e Di Bartolomeo, è “LA cardiochirurga” dell’equipe del prof. Gaetano Domenico Gargiulo, colui che l’ha cresciuta e forgiata nel carattere e nelle tecniche, colui che l’ha conquistata “per l’eleganza del gesto chirurgico”.
L’incontro con la cardiochirurgia
“Non provengo da una famiglia di medici ma ho sempre saputo che da grande lo sarei diventata. Quando sono entrata alla Facoltà di Medicina ho visto tante cose, non ero più così sicura di diventare pediatra. Ho frequentato la Cardiologia Pediatrica e contestualmente ho incontrato il prof. Picchio delle Unità Operative di Cardiologia Pediatrica e dell’Età Evolutiva. Fu lui a rivolgermi la fatidica domanda. “Emanuela, – mi chiese – ma tu vuoi essere un clinico o un chirurgo?”. In quel momento non ne avevo ancora idea.
Mentre seguivo le sue lezioni in Facoltà – ero molto affascinata dalla cardiologia – ho conosciuto il prof. Pierangeli che dirigeva la Scuola di Specializzazione in Cardiochirurgia dell’Alma Mater di Bologna. Una mattina chiesi un appuntamento alla sua segretaria: mi accolse alle sette della mattina, avevo 22 anni, sapevo che stavo per incontrare un mostro sacro della cardiochirurgia. Siamo entrati in sala operatoria insieme e con lui mi sono “lavata” per la prima volta nella mia vita (è il termine che indica la preparazione per la sala operatoria): da lì, non sono mai più uscita. Ho capito che in sala mi sentivo felice. La passione e la determinazione per questo lavoro mi hanno portata ad essere qui oggi.
Poi ho incontrato il prof. Gaetano Gargiulo: lo conoscevo già ma non ero mai entrata nella sua sala operatoria, quella della cardiochirurgia pediatrica. Per me era qualcosa di irraggiungibile, la sua sala era avvolta da una sorta di “aurea”. Sono stata all’estero, in Olanda e a Parigi e quando mi stavo per specializzare il prof. Gargiulo mi ha chiamata e mi ha detto “Hai deciso cosa vuoi fare da grande?”. Ho risposto: “Il cardiochirurgo”. Lui mi ha detto: “Bene, d’ora in avanti starai con noi, se tra un anno ci ameremo come oggi, la tua vita sarà la cardiochirurgia pediatrica ”.
Ho capito che stavo per fare la scelta che mi avrebbe cambiato la vita, per sempre.
Era il 2004.
Ero felice, ma anche preoccupata di non essere all’altezza, tutti i medici che lavoravano con lui erano persone molto preparate nel settore pediatrico. Il prof. Gargiulo mi ha formato, in tutto e per tutto. Ho fatto una lunga gavetta, sapevo che stavo costruendo qualcosa di grande. La cardiochirurgia pediatrica è molto diversa da quella dell’adulto per tante cose, anche sotto l’aspetto emotivo”.
Adulto e bambino: quali differenze?
“Il paziente adulto con cardiopatia congenita è un paziente che richiede molta esperienza, dal punto di vista chirurgico, e anche molta dedizione. Gli adulti sono pazienti fragili, che passano per numerose ospedalizzazioni, convivono tutti i giorni con la loro malattia. Li accompagni lungo tutto il percorso, ti conoscono e si aspettano che tu continui ad occuparti di loro negli anni.
C’è un motivo per cui il paziente cardiopatico congenito adulto viene seguito e operato da un cardiochirurgo pediatrico: perché conosce già la sua cardiopatia, è preparato.
La scelta della continuità di cura, sapere che questi pazienti hanno un posto dove essere seguiti sempre, è molto importante.
L’adulto ha un percorso tutto suo: ti fa tante domande, ha aspettative, ansie, paure, che spesso il bambino non ha. Il neonato è ancora diverso: in questo caso ti occupi sia del piccolo, sia dei neo genitori, che ti affidano la cosa più preziosa che hanno”.
La sala operatoria
“In sala operatoria serve preparazione, più che sangue freddo. Bisogna studiare molto ed essere curiosi, ma soprattutto essere preparati, non lo si è mai abbastanza. Poi si cresce, si acquisisce responsabilità. Il mio primo intervento lo ricordo benissimo, è stato molto impegnativo. Ogni intervento deve essere pianificato nel miglior modo possibile: sin dall’inizio del mio lavoro ho osservato attentamente e studiato i miei colleghi, e soprattutto il prof. Gargiulo, per carpire tutto quanto potessi. I loro gesti, le loro tecniche, come si ponevano verso il paziente, verso il bambino, nei confronti della famiglie.
Il prof. Gargiulo è stato ed è tutt’ora il mio maestro. Mi ha insegnato tutto, ho sempre ammirato anche la sua grande umanità: i bambini e le famiglie lo adorano. Ho sempre desiderato diventare come lui, la sua sala operatoria, sempre in ordine, la sua precisione, il suo metodo: tutte caratteristiche che ho cercato di fare mie”.
L’intervento sui neonati
“L’episodio che ricordo di più è quando ho eseguito, da primo operatore, un intervento di switch arterioso per il trattamento della trasposizione dei grandi vasi su un neonato che pesava meno di 2 kg, nato prematuro: era il mio sogno nel cassetto, e anche se preoccupatissima ero molto contenta. Lo switch arterioso è un intervento che si esegue in epoca neonatale, a poche settimane di vita del bambino. E’ una chirurgia che richiede precisione, meticolosità e ritmo. E’ una chirurgia elegante, almeno è quello che ho pensato quando ho visto per la prima volta il professor Gargiulo eseguire questo intervento. E anche se oggi la tecnologia nella preparazione ed esecuzione dell’intervento cardiochirurgico ci aiuta moltissimo, la manualità del gesto del chirurgo rimane sempre la componente principale dell’intervento”.
Il primo trapianto di cuore
“Il primo trapianto di cuore è stata una grande avventura: ricordo che era agosto, il mese in cui compio gli anni. In equipe avevo tutti i miei colleghi, le mie colleghe anestesiste e il dott.Ragni. La squadra che tutti desidererebbero. Sono stata molto felice, umanamente e professionalmente: è andato tutto bene e questo bambino aspettava un cuore nuovo da tanto, tantissimo tempo. Oggi lo vedo crescere e diventare grande, quando viene ai controlli, e questa è la soddisfazione più bella.
Ogni chirurgo ha nel suo cuore alcuni bambini che non dimenticherà mai. Ti rimangono dentro e fanno parte della tua vita. Sono i successi che abbiamo conseguito, ma anche gli insuccessi. Quando perdi un paziente sai che te lo ricorderai per tutta la vita, è un dolore che non dimentichi.
Poi quando ho bisogno di tirarmi su di morale penso ai bambini che stanno bene, che sono tornati alla loro vita normale, che mi vengono a trovare ai controlli e mi fanno sorridere, che mi disegnano con la divisa verde e i capelli biondi”.
La relazione con i genitori
“La relazione con il paziente e con i familiari, nel nostro lavoro, è un aspetto in più da gestire.
Nella relazione con i genitori del bambino, che viene sottoposto ad intervento cardiochirurgico, ci sono un prima e un dopo. Prima dell’intervento, quando la famiglia ha paura ed è preoccupata, dopo l’intervento quando arriva il sollievo.
L’empatia è fondamentale, creare un legame con il bambino e con la famiglia è fondamentale. La famiglia deve sapere che sei a loro disposizione, che si possono fidare di te, che ti dedichi a loro figlio in maniera assoluta. Allo stesso tempo ci vuole lucidità, la giusta “distanza”: il bambino non si aspetta che tu sia loro amico, ma che tu sia quello che risolve il problema. E da quando sono diventata mamma, lo capisco molto bene. Ci sono certi no che ti costano fatica, perché sono difficili da dire, ma sono quei no che rassicurano, che creano fiducia. I bambini devono potersi fidare, non amano le bugie.
Il supporto di Piccoli Grandi Cuori
“Facciamo tanti colloqui con i genitori, anche prenatali, ovvero quando alla mamma in attesa viene diagnosticata una cardiopatia congenita sul feto. Insieme a noi c’è la dottoressa Sara Ruggeri, psicologa dell’Associazione Piccoli Grandi Cuori che ci aiuta e ci supporta in tutto questo lavoro. Al termine della discussione, quando presentiamo la situazione, il quadro anatomico e l’iter chirurgico, la dott.ssa Ruggeri fa sentire sempre la sua presenza ai genitori, che hanno bisogno di sapere e di conoscere a che cosa andranno incontro.
La prima domanda che ti fa un genitore è “Come sarà il futuro di mio figlio? Saremo in grado di affrontare tutto questo?”. La nostra risposta è sempre la stessa: “Quando entrate qui, entrate in una seconda famiglia, che non è fatta solo da noi sanitari ma da tutti quelli che lavorano per voi e per vostro figlio, coordinati e sostenuti dall’associazione Piccoli Grandi Cuori che vi aiuterà e sosterrà in tutto il percorso. Questo è davvero molto importante, fa la differenza.
Con alcuni genitori resto in contatto: loro sanno che laddove ci sia una necessità o un’urgenza, possono trovarmi. E non parlo solo di urgenze cardiochirurgiche o cardiologiche. Le famiglie, in generale, sanno che qui nel nostro reparto e grazie al supporto dell’associazione Piccoli Grandi Cuori, dei servizi di assistenza psicologica e socioassistenziale, avranno sempre accoglienza ed una pronta risposta”.
Cardiochirurga e mamma
“Sono diventata mamma tardi, avevo 45 anni. Ho sempre desiderato un figlio, non ho mai pensato che i figli potessero penalizzare la carriera, ma ero consapevole che avrei incontrato degli ostacoli. Avere un figlio non ha cambiato le mie capacità chirurgiche. Tommaso è un bambino che non si lamenta, perché sa che deve stare spesso senza la sua mamma. Con il mio lavoro i momenti liberi sono davvero rari, ma molto belli e improvvisi.
Quando sono rimasta incinta avevo molta paura: tutti i giorni curo bambini. Ricordo che, alla morfologica, il dottore mi guardò e mi disse “Emanuela, lo so che a te interessa solo il cuore”. Dopo che è nato Tommaso qualche momento di stanchezza l’ho avuto, non lo nego, ma amo troppo quello che faccio, è la passione che mi spinge ad andare avanti. Mettere in equilibrio tutte le cose, come medico e come mamma, come moglie, richiede una gran fatica. In famiglia è fondamentale avere al proprio fianco un compagno che ti sostiene, che crede in te.
Essere donna in questo ambito è stata ed è tutt’ora una gran fatica. Sono certa di aver dovuto lavorare di più, come donna, per affermarmi in questo lavoro. Nella mia carriera professionale ho avuto capi che non mi hanno giudicata per questo motivo, mi hanno valutata prima come chirurgo che come donna, ma è stato comunque complesso. Non solo nei confronti dei colleghi, ma anche delle famiglie: è difficile essere recepita come “chirurgo” e non come signorina, ecco. Il chirurgo è maschio. Ed è difficile anche essere accettate come donne, nella comunità scientifica. Siamo in poche, in Italia e nel mondo, anche se si stanno facendo avanti tantissime studentesse; le donne sono brave, sono dedicate e appassionate, hanno quel “senso di rivalsa”, quel desiderio di farsi apprezzare per quello che sono che le rende estremamente tenaci”. A loro ripeto sempre: non abbiate paura di essere brillanti”.
Foto di Paolo Righi Leggi l’articolo su Vanity Fair.